venerdì 9 maggio 2008

When I was young


Non posso legare purtroppo il mio più antico ricordo a quella che tuttora definisco la mia città. Ma è un ricordo piuttosto folkloristico e ci sono molto affezionata. Come tutti i ricordi lontani nel tempo non si può dire quanta sia farina del mio sacco e quanto sia un “patchwork” di racconti successivi, ma nell’immagine che ho creato c’è molto di me.
Non ho ancora tre anni, ho dei dolorosi e deliziosi codini e una salopette verde miliare, con una camicia a quadri colorati. Una perfetta bimba “fine anni settanta”, in villeggiatura al mare, che sulle spalle del suo papà si gode tranquilla un concerto dei Camaleonti, quelli di “ applausi” e “l’ora dell’amore” per intenderci.

Il palco lo ricordo benissimo, così come ricordo uno dei musicisti con un’improbabile testa di ricci “afro” e una chitarra bianca. C’è molto di me dico, la musica ad esempio, che mi accompagna in maniera quasi maniacale da quando sono piccolissima.

Buona parte delle mie inclinazioni si devono ai 33 giri di mio padre e al vecchio giradischi a casa dei nonni, su cui potevo ascoltare i Creedence, Louis Amstrong, Simon and Garfunkel.

Così, ripudiati a dieci anni i dischi di Cristina D’Avena, sono passata direttamente, senza soluzione di continuità, ai Pink Floyd.
Questo mi avrebbe salvato nell’era dei Take That e delle Spice Girl, in cui ero ormai alla fase Metal/Grunge, e ascoltavo una radio locale, che tuttora esiste, chiamata “Radio Lupo Solitario”in omaggio ad American Graffiti.
Unico rimpianto grande, quello di non aver mai potuto studiare strumento, e dovermi quindi limitare ad ascoltare, non potendo produrre musica, e ascoltare con l’orecchio “menomato” di chi non può capire fino in fondo quello che sente. L’unica cosa che sia mai riuscita malamente a strimpellare su una chitarra malconcia e non troppo accordata sono le prime due batture della bourree in mi minore di Bach, ma ero ormai troppo “vecchia” e troppo immersa in una realtà che turbinava veloce e imprendibile, per potermi concedere il lusso di quel ozio necessario a imparare a “leggere”, “scrivere” e parlare” una lingua aliena.
Ma torniamo all’inizio, quello cronologico per lo meno.
Sono nata in settembre, il 28. Mi piace molto il mese in cui sono nata. L’estate è finita, ma non troppo lontana. La vita ricomincia, dopo essersi sospesa. Si riprendono i fili di tutti i discorsi…o quasi.

Mi pare di essere nata alle 10.00 del mattino. Che tolta l’ora legale fan le 9.00. Forse l’unica volta in cui ho fatto qualcosa di decisivo di buon ora. Trovo le prime ore del giorno gelide e spietate (mood un po’ depresso?), preferisco la sera. Forse sarà per i colori, forse per quel piacevole senso di attesa dell’immediato futuro ch’è il giorno seguente, che se ne va a braccetto con la sottile malinconia per quello appena trascorso. Quel attimo senza tempo ch’è il crepuscolo, e l’intimità che porta con sé.
Ma son nata di primo mattino, all’ora del “cappuccio e brioche”.
I primi dieci anni della mia vita, non pochi insomma, li ho vissuti a Milano e forse l’idea di imprinting avrà un qualche valore, perché è da quando me ne sono andata, che aspetto di tornare. Speranza ancora disattesa.
La scelta della mia terra promessa non manca di destare qualche stupore, in alcuni quasi scandalo, nel non riuscire a capire cosa di bello si possa trovare tra l’asfalto e lo smog, nella gente che silenziosa corre e non sorride mai. Forse la chiave di tutta questa nostalgia, reale o costruita, sta in quegli anni che da quel che ricordo e da quel che mi è stato raccontato, furono anni sereni e felici.

1985. Cominciai la prima elementare con qualche giorno di ritardo.
Mio zio, giù in Puglia, si era sposato e io avevo la gravosa responsabilità di portare gli anelli all’altare. Portai a compimento con serietà il mio dovere nonostante le scarpine di vernice a cui avevano dovuto grattare la suola per evitarmi un imbarazzante capitombolo lungo la navata, nonostante l’incisivo caduto proprio alla vigilia delle nozze che mi regalava un sorriso sdentato e nonostante una cicatrice lungo la guancia, riportata nella mia personale guerra con il gatto della nonna, un siamese superbo, restio a farsi “coccolare”.

Certo qualche dubbio sulla mia adeguatezza alle situazioni mondane e al ruolo di “signorina”( che non sarei mai riuscita a recitare), avrebbe dovuto balenare nella mente di mia madre, che ancora spera di vedermi un giorno uscire di casa senza le matite nei capelli e gli orecchini scompagnati. Fatto sta che varcai la soglia della scuola elementare di via Anemoni 8 con 3 giorni di ritardo.
La scuola, che ancora esiste, anche se in parte riconvertita ad altro uso, è un enorme edificio dalle pareti a mattoni grezzi, sia fuori che dentro. Aveva scalinate e corridoi infiniti, con scalini bassissimi, in ogni angolo c’erano piccoli cortili nascosti, panche su cui sedersi, grandi vetrate da cui guardare il parco circostante e un grande chiassoso refettorio con gli sgabelli verdi. Il tetto poi, non era altro che uno sterminato terrazzo, con innumerevoli luoghi in cui poter giocare a nascondino.
La mia maestra era una dolcissima signora dai capelli appena imbiancati, Emilia.
Io ai tempi ero davvero molto alta, superavo i miei compagni di almeno una spanna, quindi ero sempre in fondo nella fila, con un altro spilungone, Emanuele. Ma mentre io smisi ben presto di crescere, lui, che inaspettatamente si presento alla mia porta dieci anni più tardi, sarebbe diventato un colosso. Ero anche seduta all’ultimo banco e correva voce, tra i miei compagni, che la causa del mio misterioso ritardo fosse una bocciatura e che, addirittura, avrei dovuto essere in terza anziché in prima. Ben presto i dubbi svanirono. Certo non brillavo per ordine e precisione; il mio banco era ingombro di penne e matite che rovinavano continuamente al suolo, perdevo un temperino alla settimana e una gomma ogni due giorni, la mia calligrafia si apprestava già a diventare indecifrabile, ma imparavo con voracità e con passione, china con il naso appiccicato al foglio, come se volessi entrarci dentro e con la punta della lingua fuori dai denti nello sforzo di concentrarmi, cosa che mi scopro tuttora a fare, ogni tanto.
Era eccitante scoprire il mondo come se fossimo noi in quel momento ad inventarlo, dare nomi alle cose, svelare i segreti dei numeri, disegnare poesie. Preparare le recite di fine anno. Non c’era fatica, ma solo la vertigine di sapere e capire e voler sapere e capire sempre di più. La curiosità di chi guarda le cose per la prima volta.

Scoprire, inventare, creare…la miscela perfetta per il “rosa maiale”, con cui dipingere i porcelli da mettere nel nostro “villaggio medioevale”, le statuine votive egizie fatte con i flaconi di shampoo, il can-can con le gonne di carta crespa, il gatto di “Pierino e il lupo”, i confetti di polistirolo per la “pioggia di piombino”, il salvataggio dell’uccellino caduto dal nido, le patate che germogliano, gli erbari, i mimi che trasformano carta stagnola in caramelle colorate, il re e la regina del teatro che ci fanno sventolare i fiori durante il torneo di cavalieri.

E i miei compagni.

Stefano, un bambino riccioluto che tartagliava e aveva un fratello paninaro, fan di Jovanotti. Elisa, la mia migliore amica, bella e delicata, con gli occhioni azzurri, la madre la spedì in terza a studiare in una scuola dal nome che metteva i brividi: Leone XIII. Margherita tanto buona da sembrare un po’ tonta, con una mamma giovanissima e occhiali spessi come fondi di bottiglia. Alberto, disegnava solo personaggi di Walt Disney, suo padre era zoppo e lavorava al Pirellone. Andrea, funereo e taciturno, era molto intelligente, ma faceva sempre discorsi macabri, disegnava tombe e combattimenti tra dinosauri. L’altro Andrea, chioma rossa in perenne movimento, campione assoluto di “scivolate”. Sonia era magrissima, aveva una vena verde in mezzo alla fronte e un sacco di sorelle grandi, a 10 anni era già zia. Libero, era biondo ed è stato con noi per poco, suo padre si diceva fosse un anarchico, parola che ai tempi suonava di magico e oscuro, forse era un mago?C’era anche un bambino che veniva dal circo, frequentò solo un paio di mesi, in seconda, non ne ricordo più il nome, era figlio di una trapezista e di un domatore, o almeno così raccontava. Davide, aveva i capelli a spazzola e adorava giocare a calcio, eravamo tutte sue aspiranti fidanzate, ma gicava a memory solo con me. Giuliano, si rifiutò di ballare con me in palestra, era il primo della classe e vestiva sempre di ciniglia marrone. Monica, aveva dei capelli biondi lunghissimi che sua madre le raccoglieva in una treccia che le arrivava fino alla cintura e che i “maschi”, ovviamente, non potevano esimersi dal tirarle. Alessandra, la mia "seconda migliore amica" dopo che Elisa se ne andò, era cicciotella e buona, suo padre faceva il giornalista all’unità e così un giorno andammo in gita alla redazione.

La rotativa era una macchina enorme, smaltata di verde ospedale e faceva un rumore infernale. Funzionava anche di giorno, ci spiegò, perché stampavano “la notte”, un giornale che usciva la sera invece che il mattino. C’erano rotoli di carta grandi come balle di fieno ovunque. Era l’inverno 1989, quel giorno pioveva e faceva un gran freddo, e prima di andare ci fece un bellissimo regalo che campeggiò sul muro della nostra classe per tutto l’anno seguente: il negativo della prima pagina che riportava la notizia del crollo del muro di Berlino.

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