venerdì 21 marzo 2008

Liberi tutti.



Alla mia destra un uomo distinto in completo blu scava poco dignitosamente all'interno delle sue cavità nasali. Poco più avanti un signore di mezza età, le lenti bifocali calate sul naso, legge il giornale, mi chiedo divertita se non porti ai piedi un paio di pantofole di velluto.

Il sole ancora basso sull'orizzonte illumina la strada e ferisce gli occhi. Una bella giornata, almeno in senso meteorologico; anche l'asfalto, cullato dall'alba, sembra meno feroce.

Non sembra accorgersene la ragazza dalla chioma leonina alla mia sinistra, che gesticola animatamente, nel suo acquario di lusso il piccolo privato dramma mattutino sembra una farsa al teatro delle marionette.

Appoggio la testa, stringo il volante e chiudo gli occhi, la macchina borbotta, stufa di ingoiare benzina per nulla, sbadiglio.

L'uomo distinto ha finito la sua ricerca speleologica e tamburella impaziente sul cruscotto. Da qualche parte il suo impero attende di essere governato e il sovrano sbuffa, visibilmente irritato dall'attesa.

Un piccolo impercettibile movimento, che lascia insoddisfatti come lo scoprire, dopo aver addentato affamati un delizioso pezzetto di dolce, che in realtà il dolce è finito e quella appena ingoiata, era l'ultima fetta. Che fame, una metafora poco adatta all'ora e al luogo.

Mi ridesta da pensieri tanto burrosi e domestici, l'inconfondibile rumore di lamiera e plastica accartocciata, che sta all' automobilista, come il ruggito del leone sta alla gazzella.

Cretini, il primo pensiero viene diretto dalla savana.

Si saranno fatti male? Il secondo indossa abiti civili.

Abbasso il finestrino, l'aria fresca del mattino mi investe carica di smog, il sole è caldo sul viso. I due discutono animatamente qualche metro nero più in là. Attorno volti sconsolati, irritati, incattiviti, furiosi, delusi, scuotono all'unisono le più disparate teste, l'attesa si allunga. Uno dei due contendenti è giovane, piccoletto, molto magro, molto incazzato. L'altro ha degli improbabili pantaloni color caki, i suoi gesti perentori ci dicono che è altrettanto incazzato. Colpo di scena. La constatazione amichevole, si sparge per aria in mille coriandoli di rabbia e frustrazione. Il ragazzo si avvicina all'uomo.

Si alza d'improvviso il vento, portandosi via quei coriandoli tristi.Li seguo con gli occhi. Le chiome di alberi enormi e bellissimi si piegano al libeccio. I prati vicini all'autostrada hanno un fascino malinconico e il dignitoso contegno dei reduci.

Il ragazzo guarda l'uomo. Le tante teste disparate trattengono il fiato, con un piacere misto a eccitazione. L'uomo si fa più piccolo, sembra quasi appassire. La signorina riccia, aggrappata al volante come un naufrago ad un frammento di relitto, segue con passione la trama che si svolge al di là del vetro. Ma il ragazzo si piega, sembra inchinarsi e doloroso, concentrato, slaccia le sue scarpe da lavoro, con infinita lentezza se le sfila e guardando negli occhi l'uomo con stanco disgusto le appoggia sul tetto della sua auto. Scalzo si allontana. Le più disparate teste, sempre all'unisono, vengono scosse dalla sorpresa. Il ragazzo scavalca il guard-rail sempre lentamente, sempre con solennità, maestoso nell'incomprensibilità del suo gesto. I suoi piedi calpestano l'erba verde, si ferma.

L'erba sotto le piante dei piedi, penso, che meraviglia, un onda di ricordi, di pensieri, di profumi mi travolge, ancor prima che possa sorprendermi di un pensiero tanto bizzarro.

Perché no?

La domanda mi riecheggia nella testa come una formula alchemica. Mi guardo attorno, come a cercare appiglio nella cruda banalità delle facce che mi circondano. Ma vedo solo lo spaventato abisso negli occhi delle tante disparate teste attorno a me. Spengo la radio. Mi sfilo le scarpe. Il cemento è caldo e ruvido. Le appoggio sul cofano del mio destriero, guardandolo con la nostalgia di chi dice addio prima di un'ultimo viaggio. Poi guardo il ragazzo. Ha ripreso a camminare verso l'orizzonte verde. Mentre cammino verso il prato, con la coda dell'occhio vedo altre teste che, non più all'unisono, escono dai loro gusci di metallo e mi camminano affianco. L'erba è fredda e vellutata, mi fa il solletico. Camminiamo. Il ragazzo si volta e sorride. E' bello, forse perché sorride. Le tante teste chiudono gli occhi e si appoggiano sull'erba, le nuvole corrono sopra le loro palpebre. Silenziosa l'erba avanza verso il cemento e pietosa lo ricopre come un sudario.

Il vento si è placato.

Poi d'improvviso l'oscurità e il silenzio.

....

....

....

pip

pip

pip


"sono le ore 6 e 8 minuti"

"si segnalano code in aumento tra il bivio dell A4 e la tangenziale ovest, in direzione sud"

...

...

allungo la mano e la spengo. Penso all'erba, fresca e vellutata, che paziente aspetta, lungo l'autostrada.

mercoledì 19 marzo 2008

Cominciamo da qui...

Hold on little girl
Show me what he's done to you
Stand up little girl
A broken heart can't be that bad
When it's through, it's through
Fate will twist the both of you
So come on baby come on over
Let me be the one to show you
Mr Big, 1991

1985. Il giorno che arrivai nevicava, il cielo era incredibilmente rosa, stretto tra due pareti grigie e ripide, i fiocchi cadevano pesanti sui vetri della macchina e non potevo fare a meno di contemplarli ammirata, col naso per aria.
Avevo quasi sei anni.
Era l’inizio di un grande amore per quella piccola valle, con quel paesino di 800 anime che tanta parte avrebbero avuto nella mia vita, luoghi che sarei andata ritrovare molte e molte volte negli anni e sempre con la terribile nostalgia che si può avere per il tempo perduto della propria infanzia e, ancor più, della propria adolescenza.

La canzone che apre questo “capitolo” non ha un significato particolare, o almeno, tale significato non è da cercare nel testo, ma nel incredibile potere che ha di evocarmi, ancora oggi, la luce di quelle estati.
Il classico “lentone” degli anni ’90, “struggente” colonna sonora di drammi adolescenziali, figurava tra le hit del jukebox dell’Angelino.
“L’ Angelino” era un alpino in congedo, che quando arrivammo, alla metà degli anni ’80, era già vecchio. Ma probabilmente immortale. Quando infatti tornai , 20 anni dopo, non solo la canzone era ancora al suo posto,ma anche l’Angelino, come sempre alticcio per qualche bianchino di troppo, era dietro il bancone.
Il bar Locatelli si trovava, ed è ancora, all’ingresso del paese, in una specie di piazza con una panchina di cemento, in cui potevamo star seduti anche in 15, un alimentari/edicola e il bar concorrente, il Pesenti. Noi tutti però, in questa guerra all’ultimo grappino, parteggiavamo ovviamente per l’Angelino, che era molto più “underground”.
La sala dove stava “sua maestà” il jukebox puzzava di fumo vecchio di secoli, ma era molto grande e potevamo farci tutto il baccano che volevamo, salvo quando il legittimo proprietario e qualche altro giovincello del paese decidevano di fare una partita sul bigliardo logoro e unticcio. Durante l’inverno una parte della stanza veniva chiusa con una parete di truciolato per risparmiare sul riscaldamento. I miei genitori non si capacitavano della nostra affezione nei confronti di quel posto laido e puzzolente, mia madre era solita ripetere, quando tornavo a casa fetente come una ciminiera,”vi portiamo qui per respirare l’aria buona e voi vi andate a chiudere lì dentro!”. Era però la nostra ”tana”, il posto dove andare a cercare gli amici, dove ripararsi dal gelo d’inverno, dove rifornirsi di patatine, gelati, sigarette. Dove si consumavano i primi amori clandestini al riparo di angoli bui.
Sarebbe stato proprio davanti al bigliardo lurido e allo specchio macchiato dal tempo che una maglietta dei Metallica sotto una selva di riccioli neri, mi avrebbe “galantemente” leccato il dorso della mano.
Dodici anni dopo e a dieci di distanza dalla mia ultima estate a sottochiesa,nell’albergo del mio invecchiato primo moroso a un paio di chilometri da lì, ci saremmo divisi un letto a una piazza. Ma questa è un'altra storia.