giovedì 17 aprile 2008

Il lenzuolo bianco.

Lei disse misteriosamente
"Sarà sempre tardi per me quando ritornerai".
(De Gregori)
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La luce dell'aurora filtrava grigia tra le tende spesse e impolverate, il letto enorme e freddo, come l'aria nella stanza. Sotto le coperte il tepore di un letargo che avrebbe voluto fosse infinito. La sveglia suonava inascoltata, richiamo vitale così stridente, così lontano in quell'alba pietrosa.

Ora scendo dal letto, mi lavo i denti, faccio colazione e vado a lavorare. Ripeteva a se stessa questa cantilena. Più la ripeteva, più stringeva le ginocchia al petto come a cercar scampo da quel nuovo giorno.

A tratti trovava sollievo nel vuoto che giungeva d'improvviso tra i suoi pensieri, privo di rabbia, dolore, gioia, attesa. Un infinito spazio bianco, come quel lenzuolo che profumava insopportabilmente di vita passata.
A tratti invece sentiva una profonda vertigine scuoterle lo stomaco, come chi guarda l'abisso prima di saltarci dentro.
Nella sua mente premeva un caotico, doloroso puzzle, di cui non riusciva a venire a capo.

Si sedette, la schiena appoggiata al muro, chinò la testa su un lato e osservò distratta il soffitto poi chiuse gli occhi. Stese lentamente le gambe, nude sotto le lenzuola, ascoltandole scivolare, concentrandosi sulla sensazione della stoffa sotto i piedi.
Spenta la sveglia, il modo sembrava essersi inspiegabilmente ammutolito.
Fissò il telefono, divenuto inutile. Fissò la porta, inappellabilmente chiusa.
Fu allora che finalmente sentì le lacrime, calde e vitali in tutto quel gelo, in tutto quel bianco, scivolarle sul viso e cadere con un tonfo sordo sulle sue mani, le sentì salate sulle labbra, le guardò attenta riposare vicine sui palmi delle sue mani.
Sentì i suoi lineamenti contorcersi, deformarsi, sotto il peso di quel dolore, finalmente reale, finalmente tangibile, ma silenzioso, come dentro un acquario, come in fondo ad un oceano.
Guardò la sua sagoma immobile sotto quel maledetto lenzuolo bianco e profumato e vi appoggiò le mani umide. Forse ora era libera. Forse poteva lasciarsi andare. Guardò un'ultima volta le sue mani, incredibilmente candide, confondersi con il lenzuolo. Svaporare, come un brutto sogno alle prime luci del mattino, smettere testardamente di combattere, dissolversi, diventare bianco, nel bianco, senza più forma, senza più peso. Senza dolore.
Un sorriso amaro, rassegnato ma in fondo sereno, le si dipinse sul volto.
Con un lungo tremulo sospiro chiuse gli occhi su quel mondo divenuto alieno, gelido, incolore, silenzioso.
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L'uomo, nervoso e sudato sotto il portone, suonò molte volte,si guardò intorno smarrito, poi incerto tolse un mazzo di chiavi dalla tasca e aprì.
Fece le scale due alla volta. Scuro in volto. Suonò ancora, ma nessuno venne alla porta. Attese qualche istante fissando le scarpe pulite, poi ancora più incerto sfilò nuovamente le chiavi dalla tasca.
La piccola casa era fredda, silenziosa. Non osò chiamare, si diresse verso la camera.
Sul letto niente altro che il lenzuolo, bianco, stropicciato, solitario.
Rimase a fissarlo incredulo, poi si lasciò scivolare lungo il muro, le ginocchia al petto, la testa tra le mani.

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